La mia esperienza di musicista impegnato nell’esecuzione e diffusione della musica contemporanea, attraverso l’attività di produzione e organizzazione, risale al 1997, anno in cui, invitato dall’amico e collega Marco Vitali, entrai a far parte dell’Associazione Dissonanzen di Napoli, di cui oggi sono presidente e membro del comitato artistico. La mia formazione musicale ha spaziato, sin dall’inizio, tra la musica antica e il repertorio contemporaneo. Essendo diplomato sia in flauto dolce che in flauto traverso, ho sempre trovato assai interessante tutto il vasto repertorio che è stato scritto negli ultimi 100 anni per questi due strumenti, che sembravano essere stati dimenticati completamente durante il XIX secolo. Inoltre, il vivere in una città come Napoli, dove il peso fortissimo di una nobile e antica tradizione musicale ha spesso fatto da argine all’avvento e alla diffusione dei nuovi linguaggi musicali, ha fatto sì che sentissi molto l’esigenza di creare occasioni di ascolto per la musica contemporanea, unendo i miei sforzi a quelli di altri colleghi, che prima di me, si erano posti lo stesso problema. D’altra parte ciò è accaduto anche in altre città italiane e, in alcuni casi, con esiti decisivi per la storia della musica contemporanea. Risulta noto a tutti, ad esempio, il ruolo che un appassionato gruppo di compositori e musicisti ha svolto a Roma a partire dagli anni ’50 con la costituzione dell’associazione Nuova Consonanza così come la storia delle Settimane internazionali di musica contemporanea di Palermo apre uno squarcio sulle straordinarie potenzialità del meridione italiano, sul talento dei musicisti siciliani e sulle capacità di innovazione culturale e progettuale della intellettualità siciliana. Il ruolo dei musicisti, nel creare occasioni di ascolto per la musica contemporanea nel nostro paese, è stato ed è ancora oggi davvero importantissimo. Tutto ciò avviene, nella maggior parte dei casi, nonostante le politiche culturali siano sostanzialmente sorde a questo tipo di proposta, con un particolare peggioramento della situazione negli ultimi anni. Questo grande ed appassionato lavoro di base, soprattutto sotto il profilo produttivo, è stato fatto dai numerosi gruppi che, in varie parti d’Italia, hanno sviluppato, spesso in maniera assai creativa e con indubbia qualità, a dispetto dell’esiguità dei mezzi economici a disposizione, una pluralità di centri di produzione, moltissimi dei quali oggi aderenti alla rete RITMO. Probabilmente, senza questa pluralità di soggetti, una parte importante della produzione musicale contemporanea sarebbe oggi ancora sconosciuta ed emarginata. Questa proposta artistica, che capillarmente pervade il territorio italiano e che supplisce al disimpegno spesso davvero colpevole delle grandi istituzioni concertistiche, è caratterizzata dal forte legame tra gli aspetti interpretativi ed esecutivi della musica e quelli organizzativi. Emerge con evidenza, infatti, dalle pieghe delle rassegne e dei festival organizzati da gruppi e musicisti indipendenti, la figura del “musicista-organizzatore” che potremmo chiamare, con parola inglese coniata per l’occasione, il “performer-manager”. Il musicista-organizzatore sa che per attirare il pubblico più ampio possibile verso un messaggio musicale difficile come quello della musica d’oggi, penalizzato dalla scarsa conoscenza che si ha dei linguaggi contemporanei, deve puntare necessariamente sul binomio costituito dalla qualità della proposta e dall’efficacia della promozione. Questo va fatto, molto spesso, tenendo presenti i forti limiti di bilancio in cui si muove, quasi endemicamente, la sua attività organizzativa. Questa punta al coinvolgimento di un pubblico giovane, desideroso di ascoltare cose nuove, interessato al cinema d’essai come al teatro d’avanguardia, ma anche ad esperienze musicali innovative, confinanti spesso con il mercato indipendente della musica rock, della musica digitale, del jazz di ricerca. Fondamentali, in uno spazio così stretto, in cui la mancanza di risorse economiche riduce lo staff organizzativo a poche figure irrinunciabili (un segretario organizzativo e un addetto stampa) sono la coesione del gruppo (nella quasi totalità dei casi giuridicamente costituito in associazione culturale) e la condivisione di un orizzonte preciso fatto di forti obiettivi artistici. Se è vero che condividere un’esperienza estetica basata sul suonare insieme porta, per forza di cose, i componenti del gruppo al rispetto e all’ascolto reciproco, è altrettanto vero che, nel caso di chi si ponga anche scopi organizzativi e produttivi, questa è una attitudine psicologica assolutamente necessaria per poi poter affrontare i numerosi problemi legati allo sviluppo e alla gestione dell’attività. Insomma, dover produrre un messaggio la cui fruibilità è assolutamente inscindibile dalla chiarezza e dalla convinzione con cui il medium gestisce e promuove il messaggio stesso (in questo caso il medium è proprio l’interprete-organizzatore o performer-manager), provoca una forte concentrazione e sinergia tra la fase della realizzazione artistica (ideazione dei progetti, realizzazione dei concerti, prove musicali, ecc.) e le strategie di promozione, che diventano quasi le facce di una stessa medaglia. La storia della musica è felicemente piena di esempi del genere e citarli, in questo caso, può apparire assai pertinente. Chi, infatti, non ricorda che il grande pianista e compositore Muzio Clementi fu anche impresario, organizzatore e persino costruttore di pianoforti ed editore? Clementi, il 24 gennaio 1813, fondò a Londra, insieme ad altri musicisti professionisti, la Philarmonic Society of London. Qualche anno prima il violinista Salomon era stato l’artefice del memorabile viaggio di Franz Joseph Haydn in terra inglese. La storia delle avanguardie musicali novecentesche sarà segnata dalla nascita dell’Associazione per le esecuzioni musicali private, fondata a Vienna da Schönberg, Berg e Webern nel 1919, con l’intento di diffondere le prime esperienze legate alla atonalità e al linguaggio dodecafonico. In realtà, la voglia di costruirsi un pubblico in maniera indipendente, di poterne toccare direttamente con mano i gusti, magari cercando di orientarli, ha sempre attraversato il mondo della musica. Forse, il primo caso davvero significativo è proprio quello di Mozart, che, abbandonata l’angustia della corte dell’Arcivescovo Colloredo, pose la sua residenza a Vienna e cercò, attraverso la sua attività privata, il successo presso l’aristocrazia e la borghesia della capitale, organizzando serate e concerti in abbonamento. Quando, nel 2005, i tagli ministeriali, figli della politica di riduzione della spesa culturale dell’allora governo Berlusconi, colpirono specialmente le associazioni costituite da musicisti ed in particolare quelle dedite alla musica contemporanea, apparve immediatamente chiaro a tutti che si andava configurando un meccanismo di selezione dell’offerta musicale molto preciso. Da una parte, i tagli furono decisi in brevi riunioni della Commissione consultiva per la Musica in cui, in poche ore, vennero esaminate centinaia di pratiche senza nessun rispetto della qualità artistica e senza nessuna vera consapevolezza di ciò che si andava a deliberare; dall’altra, è altresì vero che la linea culturale che si andava a premiare seguiva i principi del cosiddetto “Reference System”, ovvero della visibilità mediatica. Il “Reference System”, infatti, si basa sul nome e sulla fama degli interpreti e delle opere (che per fortuna molto spesso è anche indice di grande bravura e validità artistica), ma esclude completamente dal suo orizzonte chi si batte per la diffusione di repertori meno frequentati o chi cerca di sostenere i giovani interpreti. È per questi motivi che vittime del “grande taglio” avvenuto tra il 2005 e il 2006 sono state moltissime realtà musicali di piccole proporzioni, che sono state costrette, da quel fatidico momento, a chiudere o a ridurre sensibilmente la loro attività. Il ridimensionamento avvenuto nell’ambito della musica contemporanea è stato poi davvero cospicuo. Con riferimento ai dati relativi alle schede in catalogo, si è passati, infatti, dalle 20 associazioni di musica contemporanea finanziate dal FUS nel 2002 alle 13 finanziate nel 2006, con una cifra totale stanziata per le organizzazioni che si occupano di musica contemporanea pari allo 0,46 per cento del FUS nel 2006 contro lo 0,73 del 2002. In particolare le associazioni presenti nel Libro Bianco hanno avuto una decurtazione di contributi statali quasi del 50 % passando dai 526.659 euro del 2002 ai 288.000 del 2006. Eppure, il regolamento del settore musicale del Dipartimento dello Spettacolo dal Vivo ha sempre, almeno in linea teorica, sottolineato il valore aggiunto delle iniziative musicali tese alla valorizzazione dei compositori contemporanei e dell’innovazione dei linguaggi, con la presenza di espliciti riferimenti a riguardo a livello normativo. Anche l’ultima circolare ministeriale, che aggiorna la normativa del Settore Musica del Dipartimento dello Spettacolo dal Vivo, esplicitamente richiama l’importanza attribuita alla produzione musicale contemporanea. Il Decreto Ministeriale del 9 novembre 2007 dichiara solennemente all’articolo 3 comma a che tra gli obiettivi da raggiungere c’è: “favorire la qualità artistica e il costante rinnovamento dell’offerta musicale italiana promuovendo l’innovazione nella programmazione anche attraverso l’utilizzo di nuove tecnologie e sostenendo vari linguaggi musicali, propri di ambiti e culture diverse con particolare attenzione alla contemporaneità”.Al comma d si afferma, poi, di voler “promuovere nella produzione musicale la qualità, l’innovazione, la ricerca, la sperimentazione di nuove tecniche e nuovi stili, anche favorendo il ricambio generazionale”; ed ancora, al comma e, si afferma di voler “agevolare la committenza di nuove opere e la valorizzazione del repertorio contemporaneo italiano ed europeo”. Tutti ci auguriamo che queste parole non rimangano più lettera morta e che ci sia, sui temi della contemporaneità musicale, un deciso cambio di rotta rispetto al passato. Un paese che non punta sulla contemporaneità musicale è un paese che non tiene in conto il suo futuro musicale. Una domanda nasce spontanea. Perché mai un giovane dovrebbe iscriversi e frequentare corsi di composizione o di musica elettronica nei Conservatori, sottoponendosi ad una disciplina ferrea e ad un iter di studi di assoluta difficoltà, se poi non ha alcuna possibilità di vedere eseguita una sua opera nel suo paese? Non a caso la maggior parte della produzione dei compositori italiani è eseguita all’estero. Non a caso molti gruppi italiani che fanno musica contemporanea lavorano più all’estero che nel nostro paese. Mi auguro che a questi interrogativi si potrà dare, nei prossimi anni, una risposta convincente. Altrimenti, non si potrà non pensare che qualcuno abbia paura della musica contemporanea.