Il festival napoletano, inaugurato da Mark Ribot, ha chiuso i battenti con l’installazione sonora di Agostino Di Scipio in versione ambient e la presentazione del cd «Paysages historiques» Modi di interferenza/3 Chitarre azionate da computer, giochi di rimandi e ripetizioni Mario Gamba Napoli Le quattro giornate di Napoli, vale a dire - esclusi i paragoni con momenti storici di importanza capitale - quelle del festival Dissonanzen.07, hanno avuto due protagonisti: Marc Ribot all’inizio, Agostino Di Scipio alla fine. Uno eclettico anche in versioni «popolari» (non questa volta, però), l’altro rigoroso ma nient’affatto freddo o cerebrale. Di Scipio ha animato le serate del 23 e 24 febbraio, le ultime del programma. Con una installazione sonora intitolata Modi di interferenza/3 esposta all’aperto, nel bellissimo piccolo cortile davanti alla sala Martucci del Conservatorio San Pietro a Majella, e con due lavori di musica elettroacustica della serie Paysages historiques. Questa serie consiste in sei brani pubblicati da poco in un cd dell’etichetta francese Ldc. Il cd è stato presentato al pubblico del festival tra un ascolto e l’altro dei due nastri corrispondenti al numero 2, Paris, e al numero 4, New York, della serie stessa. Un Di Scipio ambient, certo meno accattivante ma altrettanto interessante di Brian Eno, in Modi di interferenza/3. Non per una particolare ricerca di relazione tra i suoni della composizione e lo spazio fisico intorno (che però determina in qualche modo, imprevedibile, lo svolgersi dell’evento), cosa che del resto non avviene in termini decisivi nemmeno nelle opere di Eno se non per allusioni fantastiche. Ma per una curiosità di avvicinarsi su un piano tutto musicale a quel filone. Tre chitarre elettriche suonano azionate da computer e amplificatori, il procedimento è «a onde» con una prevalenza del principio del «continuum», i suoni dei tre strumenti che utilizzano appieno l’effetto feedback si rifrangono gli uni sugli altri in giochi di rimandi aggiunte ripetizioni variazioni. Il ruolo di incantatore ha tentato Di Scipio? Se anche fosse, perché no? Ma questo compositore quarantacinquenne che vive a L’Aquila e lì ha il suo laboratorio principale (l’altro ce l’ha insieme ai suoi allievi della cattedra di elettronica al Conservatorio napoletano), ha messo in campo anche in questa occasione il suo equilibrio di organizzatore di materiali non concilianti, non da relax culturale. L’aspetto visivo dell’installazione ha un suo impatto e un suo fascino: poche luci dietro le tre chitarre che sono proprio «in mostra» una accanto all’altra, come su altari. In effetti si tratta secondo Di Scipio di «icone pop», e lui evidentemente non ha inteso adorarle bensì accostarle criticamente trasformandone i modi d’uso pur acquisiti nella propria formazione musicale e (si suppone) amati. Analogo e più radicale il criterio di trasformazione sonora di «depositi di suoni», «impressioni di suoni», cliché sonori, che viene adottato da Di Scipio in Paris e in New York. Nel ciclo dei Paysages historiques ci sono i suoni «standard» completamente stravolti, trasformati in suoni della creatività sovversiva contemporanea, di altre due città per altri due brani: Roma e Berlin. Poi in eBss ci sono i suoni per accompagnare musicalmente in internet una collana di libri elettronici. Infine c’è un brano, Untitled, il cui spunto politico è l’indignazione provata dall’autore quando Usa e alleati iniziarono nell’ottobre 2001 i bombardamenti sull’Afghanistan. Paris miscela suoni elettronici, dai leggeri crepitii alle controllate esplosioni, con voci rielaborate elettronicamente di parlato o di canti che evocano o contestano l’eredità illuminista: rare versioni dell’Internazionale e della Marsigliese, la proclamazione della Comune del 1871, una marcia socialista. Tutto ha qualcosa di aereo, frammentato, aperto. Mentre ha qualcosa di più denso in New York l’invenzione di itinerari sonori elettronici che contengono non la citazione letterale ma la trasformazione di emissioni radiofoniche americane: discorsi e interviste di Bush, di Condoleeza Rice, di Bob Dylan, di Noam Chomsky. Due brani diversi di uguale intensità. Un altro concerto superbo tra i sei del festival? Eccolo. Il 23 febbraio dopo la visione-ascolto dell’installazione di Di Scipio si è continuato il dialogo amoroso con l’elettronica. Ma gli strumenti acustici, suonati dai solisti dell’Ensemble Dissonanzen, erano importanti quanto i nastri. Per esempio nella Musica su due dimensioni (appunto...) di Bruno Maderna. Risale al 1958, ha vivezza di lirismo estremistico sia nelle parti del flauto (ispiratissimo Tommaso Rossi) sia in quelle del nastro, ma il nastro è addirittura «orchestrale» per vastità e profondità spaziale. Lavoro attualissimo. Come Aitsi (1974) di Giacinto Scelsi: esaltante il «ricercare» su un solo grumo di suoni del pianoforte amplificato e distorto (aggressivo Ciro Longobardi) e dei «prolungamenti» elettronici. Come Ricorda cosa ti hanno fatto in Auschwitz (1966) di Luigi Nono: solo nastro, voci che trapelano sommesse tra i commoventi suoni sintetici.